domenica 22 aprile 2012

Una vita a Pathlaya



Tra sorrisi e colori prende vita la rappresentazione indo-nepalese del nostro carnevale, giornata in cui ogni scherzo vale. Un piccolo villaggio in festa, che per 2 giorni continua senza sosta, in una scherzosa atmosfere il lancio di colori non si arresta, si accompagna con il lancio di uova ed ogni genere di cosa, mentre lo scemo del villaggio si appresta nel suo giorno di vendetta, nel quale restituisce ad ogni persona circostante il quotidiano ludibrio al quale viente esposto, è perseverante, molesto, maleducato, scomposto, fuori luogo, ma nel giusto posto e soprattutto costante nel riempire la bocca alle tante vittime e cospargendo bene le gengive di colori che si mescolano con le salive e vanno a creare sputi di varia pigmentazione. La sua azione, glielo si legge in faccia gli dona molta soddisfazione, è la vittoria, la rivincita, la ribellione.
Nel mentre i vapori del roxy che evapora al sole regalano odore alcolico all'ambiente circostante ed un effetto delirante a ragazzi e uomini di ogni generazione che vanno ad alterare la loro percezione, a creare un insolito sistema di aggregazione. 
Col tramontare del sole una casa prende vita, non si capisce chi la abita perchè mezzo villaggio la presidia e assieme al mio compagno di viaggio ne vengo fatto ostaggio tra offerte di cibo e bevande, ragazzini contenti di questi ospiti così tanto "differenti", così tanto incuriositi da questa situazione, non so se più per l'inattesa visita o l'essere divergenti nel colore della pelle. Nel mentre, sotto le stelle, si continuano a svuotare e riempire piatti e bicchieri. Sorrisi, tanti sorrisi veri, una serata felice di rapporti sinceri.
Il giorno seguente fin dalla mattina si odono le grida, di ragazzini intenti alla fuga dall'assalto di colori. A questo gioco partecipano tutti, da chi a mala pena cammina a chi è tutto una ruga, da chi scappa veloce a chi è lento come una tartaruga.
Il giorno precedente è stato intenso per ogni uno e in ogni senso. Nonostante il sole già alto e il rumore di festa proveniente dal villaggio sia abnorme il mio compagno di viaggio beato e sudato dorme, riposa meritatamente; la stanchezza da cui è afflitto lo rende del tutto incurante di cosa accade nello spazio circostante.
Io abbandono l'idea di volelorlo svegliare, lo abbandono al suo sonno ed indefesso nella festa mi vado a situare, abbandono ogni inibizione e divento parte integrante della situazione.
Dopo un'altra giornata esageratamente piena, uno sguardo mi cattura, è acqua fresca e pura che rinfranca dal calore accumulato durante tutto il giorno di forte sole meridionale, la successiva offerta di volermi ospitare per la cena è l'inconsapevole inizio di un gioco di scoperta, il togliersi uno sfizio di interagirere col diverso, di scivere una parola, poi un verso, inconsapevoli che i versi, che si accumulano, simili e diversi vanno a creare strofe di reciproco interesse, che le une poste vicine alle altre, connesse vanno a formare un poema che parla di nulla e non va in nessuna direzione perchè non ha alcun tema.
La trama s'infittisce quando, in questo poema, la gente fa cenno di assenso ma non capisce né il contesto né il senso del testo che sta scvrivendo, quando ci si intristisce costruendosi un pretesto e focalizzandossi su di esso e non più sul resto.


Si manifestanono ogni giorno molteplici sfaccettature di come tutti gli esseri umani, diversi e diversamente, nascondono le proprie paure e le proprie incertezze, con tagli e potature del proprio pensiero, di un rapporto sicero con il proprio ego. Le fierezze che determinano il divario tra gli sguardi di ipotetiche altezze differenti, sono muri di mattoncini lego perchè costruiti da infanti, che però dividono e distaccano le menti dalle realtà circostanti. Anime che non crescono perchè troppo attaccate alle costanti, incapaci di accettare le variabili manifeste nelle libere abitudini di questi strani visitatori, che preferiscono passeggiare nella giungla piuttosto che restare negli instabili edifici, labili costruzioni alcune fatte di argilla e sterco altre di mattoni.
Il concetto che si possa abitare qualsiasi luogo senza nessun bisogno di doversi preoccupare che chissà quale belva ci possa attacare è un concetto del tutto innaturale per queste persone di cui mi continuo a circondare.


Naturale, per loro è un terreno asfaltato, i rumori dei camion che provengono da un incrocio trafficato poco distante, vestiti messi ad ascigare sul filo spinato, questa è la normalità, questa è la costante di ogni giorno. Non ci si domanda cosa ci sia intorno, cosa ci sia nel bosco, si resta semplicemente rinchiusi in un posto, residenza in un luogo imposto dalla deficienza, non intesa come insulto ma come mancanza, in questo caso dell'indipendezza intelletuale, da un cocetto distorto di ciò che sia bene e ciò che sia male.
Se però concepire lo spazio circostante in modo distorto sia un difetto mio o di questa popolazione, poco dedita al pensiero ed ancora meno all'azione, mi gettò nello sconforto fino a farmi accettare che ogni cosa è naturale, ogni tipo di sostanza, ogni tipo di materiale: a partire da quelli di geologica provenienza, fino all'artificiale novità prodotta dall'umana scienza e questa nuova realtà di coesistenza. Coesistenza naturale, di una giungla, un impianto industriale, per la produzione di sigarette che naturlmente verranno trasportate, naturalmente su strade asfaltate da mezzi di trasporto che si muovono solamente con il giusto apporto di gasolio al carburatore che lo spinge dentro a un motore, naturale come un pezzo di metallo estratto da un minatore, naturale lavoratore, nulla di differente da un verme, una talpa, un lombrico, contantemente in azione, come ogni cosa in questo universo, sempre in procinto di trasformazione, processo di metabolizzazione, di ciò che ci nutre, ciò che ci è stato per il momento concesso.


E'la magia della creazione che mi si palesa in mente quando la mia immaginazione mi porta all'ardito pensiero che si spinge per milioni di anni nell'ignoto del tempo, nello spazio liquido coibentato dalla crosta terrestre, la quale apparentemente deturpiamo, distruggiamo ma in realtà viste le leggi della fisica che regolano questo universo sarei proprio un fesso se credessi a questo sproloquio ecologico, credo invece in qualcosa di ben più logico che si basa sulla ciclicità degli eventi, che noi umani non siamo intenti alla distruzione di questo pianeta ma semplicemente siamo artefici di spostamenti di materiali, di nuove aggregazioni molecolari, che fanno a comporre ambienti artificiali, resi possibili e reali innanzitutto dalla passata scoperta o creazione di nuovi materiali. Ecco che, dunque, le nostre agglomerazioni di materia sintetica, che abbiamo posto ovunque, che esse siano di sintesi geologica, biologica o artificiale rientrano comunque in questa naturale crosta, che lentamente si sposta a causa di un movimento, che per quanto possa essere lento è costante, chiamato dall'uomo tettonica a zolle e blaterare di naturalezza ed ecologia senza considerare questa azione permanente è folle. Tettonica deriva dal greco tekton, parola significante costruttore, quello vero, infaticabile, che lavora a tutte le ore. Quell'alchimista che grazie al processo di subduzione fonde e rifonde ogni tipo di materiale e ogni tipo di aggregazione, senza fare alcuna discriminazione sulla loro provenienza, considerando solamente la loro esistenza. L'alchimista nel suo pentolone denominato mantello, procede alla fusione del materiale subdotto dalla crosta terrestre, per esempio: un po' di automobili, 2 o 3 città e delle foreste. Ogni ricetta porta alla creazione sempre perfetta, di un nuovo prodotto che dopo un'indefinita stagionatura viene introdotto sul mercato tramite un apparato denominato eruttivo, comprensivo di un canale che permette di trasportare di nuovo sulla crosta il nuovo materiale. Dovremmo provare a concepire, con il nostro frenetico spostare, trasformare, costruire, che nuovi materiali potremmo andare a formare in collaborazione con questo alchimista chiamato Terra sul quale siamo intenti ad abitare formando un alchemica simbiosi, che poterà alla formazione di nuovi materiali metamorfici che permetteranno chissà quali innovativi usi. Se non concepite questo e mi parlate d'inquinamento siete solo degli illusi.


I giorni intanto trascorrono, ma non degno il calendario e non ho alcun orario scandito da lancette o cristalli liquidi, ho solamente pesieri ibridi, creati meditando sotto un albero che crea una specie di caverna naturale con un bel tetto di rami e foglie, protezione dalle indiscrete abitudini, incuranti ed invadenti lo spazio personale, della popolazione del villaggio del quale, per volontà mia, sono rimasto ostaggio. Le voglie di scoperta e delucidazione della situazione ipotizzata come reale, denominata come vita, manifestazione di percezioni che in un istante potrebbe essere finita, alimentano i miei pensieri e quelli del mio compagno di viaggio in veritieri scambi di esperienze, racconti della falla sistemica che permette il passaggio in altre realtà come quelle dei sogni e le loro affinità. Per esempio la possibilità di trasportare sensazioni, ma anche tagli o abrasioni da realta trascendentali, la possibilità che da queste medesime realtà arrivino messaggi di allerta recapitati tramite il verso di diversi animali, uccellini che ti vengono a trovare, per comunicarti che ti devi mimetizzare perchè qualcuno ti sta venendo a cercare.
Ovviamente non posso e non possiamo farci trovare perchè dobbiamo ancora affrontare lunghi discorsi, sulle porte e le finestre della nostra realtà, luoghi ove si materializzano nuovi concetti e possibilità, oltre che sui nostri trascorsi alla ricerca di questi punti di passaggio.
L'interruzione di questo viaggio avviene per ritornare all'integrazione con le altre persone nei momenti dei pasti principalmente, nei quali si mangia sempre la stessa cosa ma abbondantemente.
Il piatto unico chiamato Dalbazio, sempre lo stesso, a volte invitante, a volte uno strazio.







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